Dopo anni di violento scontro, lo scorso 10 febbraio i due maggiori partiti politici palestinesi, Al-Fatah e Hamas, hanno raggiunto in Egitto un accordo per le prossime elezioni legislative e presidenziali, che si terranno rispettivamente il 22 maggio e il 31 luglio di quest’anno. Nel memorandum finale, che ha chiuso il vertice di due giorni – tenutosi al Cairo – le delegazioni hanno dichiarato il loro impegno per “il rispetto e il riconoscimento dei risultati elettorali” e chiesto al presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi di monitorare sul buon funzionamento della macchina elettorale.
Mahmud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e leader di Al-Fatah, aveva firmato lo scorso 15 gennaio un decreto-legge che annunciava l’organizzazione di nuove elezioni generali in tutto il territorio palestinese, Striscia di Gaza inclusa. La notizia era stata accolta positivamente da Hamas che, attraverso una nota, aveva sottolineato l’enorme lavoro diplomatico tra le parti per il raggiungimento di tale obiettivo.
I palestinesi, quindi, ritorneranno alle urne dopo 15 anni. Le elezioni nel 2006, le ultime svoltesi in maniera democratica, videro l’inaspettata vittoria di Hamas e del suo attuale leader Ismail Haniyeh. Un successo ostacolato sia sul fronte internazionale che su quello interno. Nonostante la vittoria di Hamas fosse stata determinata da elezioni democratiche, la comunità internazionale reagì infatti in modo ostile, per via dell’atteggiamento intransigente del gruppo islamista nei confronti di Israele e del coinvolgimento di Hamas in attività terroristiche. All’ambiguità della comunità internazionale fece seguito l’ostruzionismo di Abbas, riluttante a concedere la vittoria al rivale. Questo contrasto interno sfociò nella rottura del fronte palestinese e nella guerra civile che che ha determinato l’attuale divisone dei territori in due entità distinte: Gaza governata da Hamas e i territori palestinesi della Cisgiordania sotto controllo – per molti versi debole – di Al-Fatah.
Nonostante i vari tentativi di riconciliazione, le due parti non avevano mai trovato, fino ad ora, un compromesso. Diventa, quindi, essenziale comprendere perché l’accordo Al-Fatah-Hamas sia avvenuto proprio adesso e analizzare quali siano stati i fattori che hanno promosso questo riavvicinamento storico.
Il primo elemento che ha favorito la riappacificazione tra Hamas e Al-Fatah è sicuramente la firma degli Abraham Accords il 15 settembre scorso tra Israele, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, sotto l’egida statunitense e l’appoggio di Egitto e Arabia Saudita. Non a caso il processo di riconciliazione palestinese ha subito una decisiva evoluzione proprio in concomitanza con la stipula dei suddetti accordi, attraverso una prima conferenza virtuale, il 3 settembre, tra i leader palestinesi stanziati a Ramallah e a Beirut, e con il risolutivo vertice di Istanbul, avvenuto il 22 settembre, nel quale le due delegazioni hanno accantonato le divergenze in favore del compromesso. Il nuovo assetto regionale, sempre più ostile ai palestinesi, ha perciò obbligato le due opposte forze politiche a optare per la via dell’unità, fondata più su un’impellente necessità che su una sincera comunione di intenti.
L’opportunità del riavvicinamento tra Hamas e Al-Fatah, quindi, fa fronte a due precisi rischi per i palestinesi: il primo è l’abbandono della causa palestinese da parte degli alleati arabi, considerati traditori del principio fondamentale sancito durante l’iniziativa di pace araba del 2002, ossia la creazione di uno Stato palestinese libero e indipendente come prerogativa per il riconoscimento dello Stato ebraico; il secondo è Israele, uscito rafforzato dopo gli Accordi di Abramo, con il suo programma di espansione e costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania, che sembrerebbe ripreso senza nessuna opposizione dagli Stati arabi, e con la sua politica di pressione verso Gaza.
Gli Abraham Accords, tuttavia, sono solamente l’ultimo di una serie di avvenimenti caratterizzanti del 2020 palestinese, un anno-spartiacque che ha fortemente condizionato le sorti dell’annoso confitto mediorientale. L’anno appena trascorso si era aperto, infatti, con l’annuncio del Peace to Prosperity Plan, il piano per la “pace in Medio Oriente” redatto dall’uscente amministrazione Trump e fortemente sbilanciato a favore di Tel Aviv. In seguito, il presidente israeliano Benjamin Netanyahu aveva annunciato nel mese di giugno la decisione di annettere unilateralmente parte dei territori occupati della Cisgiordania dal primo luglio, evento che alla fine non si è concretizzato. Situazione peggiorata anche dalla crisi sanitaria dovuta al Covid-19 che non ha risparmiato i territori palestinesi. Con più di 203 mila casi e superati i due mila decessi, le scarse strutture mediche palestinesi sono al collasso, anche a causa dell’atteggiamento intransigente di Israele che sta attuando l’embargo delle forniture mediche verso Gaza e una “discriminazione sanitaria” nei territori occupati, negando il vaccino a milioni di palestinesi.
Il 2020 è stato, perciò, l’anno che ha ufficialmente rivoluzionato i paradigmi mediorientali, precedentemente ancorati al conflitto israelo-palestinese e alla conseguente conflittualità tra lo Stato ebraico e i vicini arabi. La tendenza che affiora è quella di una marginalizzazione sempre maggiore della causa palestinese in favore di nuovi interessi economici e geopolitici, primo fra tutti l’opposizione a Iran e Turchia. Questo attuale orientamento ha trovato ampio spazio grazie alla politica dell’ex presidente americano Donald Trump, il quale ha assunto un’inclinazione marcatamente pro-Israele per tutto il suo mandato, allontanando gli Stati Uniti dalla tradizionale “equidistanza” nei confronti del conflitto in Palestina. Di conseguenza, l’interruzione della classica linea americana favorevole alla soluzione dei “due Stati” e la progressiva marginalizzazione a livello regionale della causa palestinese sono ulteriori fattori che hanno spinto Hamas e Al-Fatah a riformulare le proprie strategie e a optare per la riconciliazione nel tentativo di evadere da questo isolamento forzato.
In questo scenario, le elezioni americane dello scorso novembre hanno trasformato un possibile rischio (la riconferma di Trump), in un’importante opportunità con la vittoria di Joe Biden. La nuova amministrazione democratica sembra intenzionata a ritornare nel quadro tradizionale della diplomazia americana attraverso la mediazione multilaterale in favore della two-state solution e il supporto ai palestinesi con la riapertura dell’ufficio dell’Olp a Washington e del consolato USA a Gerusalemme Est e il ripristino dei finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione, tutte politiche di netta cesura con gli ultimi quattro anni trumpiani. In questo panorama, il progetto di Hamas e Al-Fatah acquista ancora più credito e rilevanza politica: la carta delle elezioni “free and fair” potrebbe rivelarsi, infatti, una scelta vincente per presentarsi agli occhi del presidente Biden come un fronte unito e democratico, disponibile al dialogo e alla negoziazione e rinnovato nelle idee e nei principi.
Parallelamente ai fattori esterni, ci sono anche rilevanti elementi endogeni che hanno spinto le due forze politiche a intraprendere il cammino della riconciliazione. Per Hamas, il riavvicinamento ha soprattutto una valenza economica, poiché permetterebbe di attingere agli aiuti internazionali per il popolo palestinese, gestiti proprio dall’Anp. La mancanza totale di fonti di reddito dirette e il taglio dei sussidi internazionali derivato dallo stigma di “gruppo terroristico” affibbiato ad Hamas, infatti, hanno generato un esponenziale deterioramento della fragile economia della Striscia di Gaza, acuitosi tragicamente durante l’attuale emergenza sanitaria. Differente, invece, è la situazione per Al-Fatah e per Abbas. La riappacificazione diventa uno strumento politico per l’attuale presidente con l’obiettivo primario di recuperare consenso e popolarità tra i palestinesi in vista di una sua possibile candidatura, nonostante i suoi 85 anni. Un altro obiettivo, inoltre, è quello di arginare le diverse correnti interne al partito, specialmente la cosiddetta “ala riformatrice” che fa capo al navigato politico palestinese Mohammad Dahlan,
Tempus fugit, non c’è più tempo da perdere: lasciarsi sfuggire questa rara opportunità di riconciliazione potrebbe avere conseguenze molto gravi per Hamas e Al-Fatah – e ovviamente per i palestinesi in generale. In un Medio Oriente che cambia rapidamente, il mantenimento delle divisioni politiche interne non farebbe altro che peggiorare la situazione del popolo palestinese. Il riavvicinamento, quindi, non si fonda su uno spirito democratico o di ritrovata fratellanza come si potrebbe credere, ma risponde soprattutto a un bisogno di sopravvivenza in un contesto interno, regionale e internazionale sempre più avverso ai palestinesi. Gli Abraham Accords sono diventati il simbolo della trasformazione degli Stati arabi e della loro classe dirigente, formata da una nuova generazione lontana dall’impegno ideologico in favore della causa palestinese. L’amministrazione Biden, inoltre, sembrerebbe orientata verso un maggior disimpegno militare nella regione seguendo le orme dei suoi predecessori, Obama e Trump. La politica interna e il confronto con Cina e Russia saranno i fascicoli più rilevanti per la politica estera americana. Il Medio Oriente manterrà un valore strategico e geopolitico importante e sarà oggetto di interventi mirati come l’accordo sul nucleare con l’Iran e il contenimento dell’espansione turca, senza però essere in cima alla lista delle priorità del nuovo presidente democratico. Le elezioni, massima espressione della riconciliazione tra le forze politiche palestinesi, si faranno, ma le incognite restano, specialmente sui risultati. Il vertice del Cairo ha predisposto il tribunale di Ramallah come organo per eventuali contestazioni, ma i giudici sono nominati dal presidente Abbas, mettendo così in crisi il principio di imparzialità. E poi c’è il nodo di Hamas: recenti sondaggi hanno evidenziato come tra l’opinione pubblica palestinese persista una forte polarizzazione politica tra i due maggiori partiti, con una ridotta maggioranza di preferenze per Hamas. Il possibile successo democratico del gruppo di Gaza potrebbe rivelarsi nuovamente un problema per la comunità internazionale, come accadde nel 2006. Infatti, molti attori – USA e Unione europea in testa – considerano Hamas come un’organizzazione terroristica, e potrebbero ridurre il loro appoggio al popolo palestinese, producendo così una svolta verso una possibile radicalizzazione delle forze politiche locali e favorire l’influenza di Turchia e Iran, storiche alleate di Hamas.
Giacomo Chiarolla